Tra i Sahrawi – 2001

Ospite del Polisario nel Sahara Occidentale, nelle terre di confine tra Algeria e Mauritania, verso il “muro di sabbia” con il Marocco

L’idea di scoprire cosa ci fosse nelle regioni occidentali dell’Algeria, attorno a Tindouf, mi era venuta viaggiando prima sulle piste a sud di Merzouga, Zagora e Akka – dentro e fuori tra Marocco e Algeria – poi a ovest della costa atlantica di Laayoune. 

https://minurso.unmissions.org/sites/default/files/minurso-map.pdf

Il Sahara Occidentale è un territorio di 266.000 kmq, ampio più o meno come la Nuova Zelanda, la cui sovranità è contestata tra il Marocco e il Fronte Polisario, estremamente ricco di risorse naturali: i fosfati per milioni di tonnellate a Bou-Craa, nei pressi di Laayoune, probabilmente giacimenti di ferro immensi a Smara, coste conosciute per essere tra le più pescose del continente, “sacche” di petrolio.

Il conflitto che interessa l’area ha radici storiche e coinvolge la Spagna, il Marocco, la Mauritania e l’Algeria che ospita i campi profughi Sahrawi nell’area di Tindouf, costituenti la Repubblica Araba Sahrawi Democratica (RASO), istituita dal Frente Popular para la Liberaciòn de Saguiat el Hamra y Rio de Oro (Fronte Polisario) il 27 febbraio 1976.

Fronte Popolare di Liberazione di Saguia el Hamra e del Río de Oro

La curiosità mi ha portato nella RASO, per capire più da vicino come vivono i Sahrawi. Arrivare a Tindouf comporta una scelta non facile per chi è, come me, abituato a viaggiare a bordo di Hotel Charlie, il fidato Defender 90: infatti tutta l’area è sotto stretto controllo militare e la possibilità di movimento autonomo è pressoché assente. I circa 1.600 km di distanza tra Algeri e Tindouf vengono coperti con un volo che ospita quasi esclusivamente militari e invitati dalla RASO. All’aeroporto di Algeri, infatti, gli stranieri vengono imbarcati solo se muniti di lasciapassare rilasciato dall’ambasciata RASO e, all’arrivo, si è accolti dagli uomini del Polisario che, a bordo dei soliti Toyota, mi accompagneranno poi nelle diverse province della Repubblica.

Emerge subito evidente un processo di istituzionalizzazione del conflitto sahariano, in quanto la stessa RASO è una organizzazione statale in esilio ammessa (dal 1982) dall’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA) e con un rappresentante presso l’ONU.

Il diritto all’autodeterminazione del Popolo Sahrawi è riconosciuto dalle Nazioni Unite, le quali dal 1991 sono presenti nel Sahara Occidentale con la missione di peacekeeping MINURSO, che al 31 luglio 2001 consta di 202 osservatori militari, 34 operatori di polizia, 273 civili provenienti dai Paesi partecipanti (tra cui l’Italia) e 120 locali. In concreto l’obiettivo della missione, che è quello di rendere possibile la realizzazione del referendum di autodeterminazione, è lungi dall’essere raggiunto e continua a essere posticipato nel tempo a causa del contenzioso formale sulla costituzione delle liste elettorali, incentrato sul diritto al voto dei numerosi coloni marocchini incentivati dal Marocco a stabilirsi nelle aree reclamate e da quello informale, ma sostanziale, sulla ridistribuzione di poteri e interessi nella zona (cfr.: ARSO – Association de soutien à un référendum libre et régulier au Sahara Occidental).

Nota di aprile 2019 del Security Council delle Nazioni Unite

Dunque, già dall’imbarco per Tindouf, ci si rende conto che la questione Polisario è complessa, sostenuta da interessi ingenti, poco conosciuta nella realtà, gestita con molta attenzione politica da tutte le parti in gioco. In questo meccanismo, il Popolo Sahrawi, al-ṣaḥrāwī in arabo الصحراويون‎, Iseḥrawiyen in berbero ⵉⵙⴻⵃⵔⴰⵡⵉⵢⴻⵏ, è una unità culturale sostanziale, ancor prima che politica. Il medesimo nome ne denuncia le radici: Sahrawi cioè “originari del deserto”, dal turbante nero, nomadi con una propria lingua (hassaniya), islamici sunniti, urbanizzati già alla cessione del Sahara Spagnolo al Marocco e alla Mauritania nel 1975, quando sotto le incursioni militari marocchine abbandonano le loro terre per costituire la prima tendopoli attorno a Tindouf.

Oggi, circa 200 mila persone vivono organizzate nella Repubblica, nei centri di Rabouni (quartiere organizzativo e di accoglienza), El Ayoun, Smara e Dakhla, suddivisi a loro volta in tendopoli che hanno assunto i nomi di province e città Sahrawi. In tal modo l’organizzazione politica, la sovrastruttura statuale e la dimensione culturale si fondono in maniera inscindibile e strategicamente determinata, con l’obiettivo di mantenere forti legami con la patria abbandonata, quotidianamente presente nei toponimi dell’esilio.

Foto satellitare 2019 – google maps

Tindouf appare, già dall’alto, come una cittadina militarizzata assediata dal deserto, quasi un avamposto algerino in un’area in cui gli uomini del Polisario mantengono un controllo determinante e determinato. Il mio Toyota mi porta a Rabouni, centro in cui risiedono numerose infrastrutture della RASO pochi chilometri a nord est dall’aeroporto, dove sono ospitato al “Protocollo“. Il nome, ricorrente in ogni centro, identifica la struttura di ospitalità e controllo e denuncia la forte dimensione organizzativa realizzata dal Fronte.

Il Protocollo assomiglia molto a un “ridotto” sahariano: un ampio cortile cinto da mura con camerate e mensa al suo interno, sufficientemente comodo, i cui servizi sono frequentemente affidati a prigionieri marocchini, in cui risiedono spesso anche gli operatori delle organizzazioni non governative straniere che garantiscono aiuti umanitari ai Saharawi. Nei dintorni del Protocollo di Rabouni è collocato l’ospedale principale della Repubblica, al quale affluisce la popolazione per le cure, e una sorta di deposito/museo delle armi sottratte all’esercito marocchino durante le incursioni quotidiane al muro di sabbia.

Infatti, malgrado il tentativo di normalizzazione, il conflitto in corso si respira a ogni passo. Colpisce, muovendosi per le tendopoli, l’assenza di uomini giovani – a esclusione di quelli che hanno uno specifico ruolo organizzativo/amministrativo nella struttura dello stato – impegnati con turni di circa sei mesi nelle aree di conflitto con il Marocco, il quale ha difeso i confini con sei muri di sabbia di migliaia di chilometri che proteggono gli avamposti dell’esercito. Malgrado il cessate il fuoco, le scaramucce si susseguono notte tempo secondo uno schema consolidato di rapide azioni di sminamento e attacco ai bastioni di difesa.

Il mio viaggio nella RASO prosegue verso Dakhla, la più lontana tendopoli da Tindouf, circa 200 chilometri a sud est, sul confine mauro. Nel mio percorso ho occasione di fermarmi, tra una corsa a velocità sostenuta nel deserto su piste tendenzialmente “dure”, a El Ayoun e Smara (di massima si tratta della pista a sud di Tindouf indicata sulla Michelin 953).

El Ayoun è la capitale della Repubblica, come tutti i centri Saharawi un miscuglio di grandi tende, cucite dalle donne con i teli degli aiuti internazionali, e case in muratura. Come tutti i centri Saharawi dotata di un Protocollo e della scuola, organizzata in quartieri ordinati, abitata da persone sempre dignitose e determinate a ricostruire una quotidianità normale nel lungo esilio. Qui, inoltre, è stato realizzato un orto: una grande area recintata in cui il deserto, generoso quando irrigato, produce gustose carote e qualche altra verdura. Con il supporto della cooperazione, tra cui molto attiva quella italiana, sono stati intrapresi studi sulle modalità di irrigazione più confacente al clima e sulle tipologie di vegetali a miglior rendimento. Tuttavia qualche perplessità sul reale utilizzo degli orti, all’osservatore può restare, quando egli si chiede quanto pesi la componente comunicativa della realizzazione di “un orto nel deserto” rispetto alla concreta volontà di coltivare per produrre in quantità utili al sostentamento della popolazione, ora massicciamente affidato agli aiuti internazionali.

Proseguendo per Smara e Dakhla, il viaggiatore sahariano che è in me si ristora nel deserto, dove gli affioramenti di fosfati disegnano concrezioni preziose e dove, nei pressi di Dakhla, si assiste a stratificazioni fossilifere mai viste altrove. Ma lungo la pista altri segni ricordano il contesto in cui ci si muove. A sud di Smara, mi fermo nell’Università del Deserto: un’ampia struttura distante una trentina di chilometri dalla tendopoli, in cui sono presenti scuole di diverso grado, tutte molto ben organizzate, oltre a una piccola università di formazione per i quadri del Polisario, dove sono invitato a tenere una lezione sul processo di globalizzazione.

Un’aula decorosa e quasi fresca mi accoglie, accanto a una sala computer molto ben dotata, con un pubblico di giovani donne e uomini attenti e partecipanti. Ancora si nota la forte dimensione organizzativa che caratterizza la RASD e il Polisario, che cerca di prevedere un ruolo funzionale alla struttura per le persone, preparandole con un’attenta azione formativa e riservando alle donne – d’altra arte molti uomini sono al fronte – ambiti specifici di responsabilità. Nulla è lasciato al caso ma tutto e tutti sembrano essere orientati a un progetto comune:

chi viaggia nel deserto sa che in questo ambiente non si sopravvive per caso, ma competenza e determinazione fanno parte delle doti necessarie, ancor più ciò è vero per un popolo che in questo ambiente ostile combatte una propria guerra.

Senza ricordare questo, l’organizzazione della RASD può sembrare eccessivamente strutturata, poco rispettosa delle singole individualità, troppo legata a schemi ideologici a cui – soprattutto in passato – il Fronte ha anche fatto riferimento. Ma pur senza negare la consistenza di questo dubbio, una ragione di incertezza nel giudizio mi viene proprio dal ricordare che si tratta di una Università del Deserto di un popolo senza terra.

Conclusa questa mia inattesa lezione, altri due segni notevoli si incontrano verso Dakhla. Circa 120 km a sud di Tindouf vicino a Gara-Djebilet e alla frontiera maura, si trova l’area ben sorvegliata di uno dei più ricchi giacimenti di ferro a cielo aperto del mondo (2 miliardi di tonnellate), la cui estrazione è vantaggiosa solo su larga scala e l’esportazione possibile attraverso l’Atlantico, 500 km più a ovest. Si tratta, dunque, di un giacimento assai “pesante”, che suggerisce la funzionalità di un accordo tra una Repubblica Sahrawi, indipendente e sovrana sul Sahara Occidentale, e l’Algeria, alla quale potrebbe toccare uno sbocco privilegiato sull’oceano dopo tanti anni di ospitalità per i profughi. Più oltre ancora, il mio Toyota sfiora una grande striscia di asfalto, proprio vicino al confine con la Mauritania, sicuramente capace di permettere l’atterraggio di velivoli di grandi dimensioni, che ricorda l’importanza strategica dell’area.

L’arrivo a Dakhla è con il buio, sotto la prima stella di una limpida e fredda notte sahariana: a qualche chilometro il deserto algerino diventa mauro. La tendopoli è vasta, con ampie dune a oriente e acqua scarsa: un’atmosfera da avamposto, dove riesce difficile spiegare la permanenza di una società umana da venticinque anni, se non confrontata con le ragioni di una fuga precipitosa e la forte determinazione a radicarsi in un luogo, pur mantenendo fortissimi legami simbolici con la terra di origine. Ancora una volta, infatti, la vita è segnata dal mantenimento delle tradizioni e, per quanto possibile, delle consuetudini delle zone di provenienza.

Qui passo lungo tempo con Wadha Ceggaf e sua figlia Darifa. Lui è un vecchio sahrawi, i cui occhi hanno visto la storia del suo popolo. Wadha Ceggaf proviene dal Sahara Occidentale dove era un nomade che vagava tra le terre francesi e spagnole, negli anni ’30. Ha prima vestito una divisa dell’esercito francese, poi ha combattuto in Spagna con il manipolo di sahariani della guerra franchista, infine è scappato sotto un bombardamento marocchino verso l’Algeria. Ricorda con nostalgia quando cacciava la gazzella e l’incomprensione per le punizioni che gli occidentali riservavano ai cacciatori del deserto.

E’ un uomo della sabbia, i cui innumerevoli granelli costituiscono la sua cultura e la sua sapienza sedimentata, dispensata oggi a chi ne ha bisogno, nel ruolo di saggio paciere, anziano educatore, capace lettore del Corano sotto una tenda. Darifa, una sua figlia giovane, è figlia della fuga, ha solo ricordi lontani delle dune occidentali, ha un marito al fronte che aspetta mentre svolge il suo ruolo di donna impegnata nella promozione della memoria sahrawi e nella organizzazione di attività ricreazionali e culturali a Dakhla. Darifa ha un figlio, Chabahi, un figlio dell’esilio, che frequenta la scuola “Ali Omar”, il quale mi confessa il desiderio di poter avere le armi per combattere i marocchini.

Dietro le tende, casse verdi di armi sono utilizzate come bauli, hanno etichette libiche. Nella vita familiare di Wadha Ceggaf si ritrovano tutti i gesti e le consuetudini dei nomadi: la preparazione del te e i riti dell’ospitalità, la dimensione spirituale e il bisogno di libertà, l’orgoglio della propria lingua e i rapporti tra le generazioni e i generi.

E anche i caratteri di un popolo che si sente in esilio dopo venticinque anni: la determinazione a ritornare da dove è venuto e l’odio per chi li ha cacciati, l’ancoraggio irrinunciabile alle tradizioni e la provvisorietà dell’esistenza. E anche le regole rigide di una organizzazione: il sentimento di appartenenza e l’uniformità ai percorsi formativi, l’etero determinazione degli obiettivi e la perdita di individualità.

“Come stai, come stanno i tuoi genitori, come stanno i tuoi figli e i tuoi nipoti e i tuoi pronipoti? Come tira il vento dalle tue parti, quando è piovuto, cosa è successo nei dintorni, come stanno gli animali?”

tradizionale saluto sahrawi

Si tratta di una lunga comunicazione che aveva il compito funzionale di fare circolare l’informazione tra i nomadi del deserto. Ora tale saluto è desueto, poco utilizzato, più rituale che sostanziale. Le informazioni circolano in altro modo, anche con i pannelli solari che alimentano le batterie da automobile collegate a qualche radiolina. La presenza di questa elaborata formula, nel ricordo piuttosto che nella sua manifestazione linguistica, segna una delle numerose contraddizioni sahrawi, uomini portatori di un’antica cultura nomade che sono ampiamente “dentro” a un processo di globalizzazione non governato, i cui sintomi si riscontrano in molte cose qui appuntate a titolo di esempio: gli accordi di pesca tra Spagna e Marocco per lo sfruttamento della costa atlantica, le relazioni privilegiate tra Polisario e Cuba, l’incertezza della situazione algerina, gli interessi economici occidentali nel Sahara, l’inconsistenza del ruolo delle Nazioni Unite, le fratture interne al continente africano.

E poi, quando sto per partire per il Sahara gli amici mi chiedono: “Perché vai nel deserto? Non c’è niente, nessuno, … “. Ma è ancora un posto dove incontri degli uomini come te.