Azad Kashmir – 2006
Tra l’India e il Pakistan… se ci metti il Kashmir
È ottobre 2006, più o meno il giorno dell’anniversario del terremoto che ha squassato il Kashmir (8 ottobre 2005), provocando circa 80.000 morti e altrettanto numero di feriti.
A Muzaffarabad, capitale dell’Azad Kashmir (Kashmir Libero), l’area pakistana della regione divisa con l’India, l’aria è tersa, il clima piacevole, le case ancora a terra, molte tende in piedi, le NGO al lavoro (un articolo di commento sulla situazione in Kashmir dal titolo Il Kashmir è sempre più caldo è stato pubblicato in Liberal Risk, a febbraio 2007). Mi ritrovo in una delle tante aree cruciali per la stabilità del mondo: il Kashmir la cui storia rimanda alla separazione tra India e Pakistan nel 1947, quando l’India Britannica spaccandosi vide la maggioranza della popolazione musulmana confluire nel Pakistan e gli hindu in India.
La popolazione del Kashmir si rivoltò contro il Maharaja hinduista che la governava, il quale chiese aiuto all’India, che in cambio ottenne l’ “Instrument of Accession with India”, una sorta di prelazione sui territori del Jammu & Kashmir. Più volte chiamate in causa, le Nazioni Unite,
attraverso una commissione speciale, il 24 gennaio 1957, emanano la risoluzione 122 in cui si scrive che
“l’assetto finale dello Stato del Jammu & Kashmir sarà definito in accordo con la volontà del popolo, espressa attraverso il metodo democratico di un libero e imparziale plebiscito condotto sotto la tutela delle Nazioni Unite”
Si afferma pertanto la autodeterminazione del popola kashmiro nel definire le sue sorti. Il popolo non si è mai espresso, la consultazione non ha mai avuto luogo e, oggi, il Kashmir è spaccato in due. Nel mio percorso tra Islamabad, Muzaffarabad, Mirpur e le altre aree del Pakistan e Azad Kashmir sono stato accompagno da Sardar Usman Ali: figlio dell’attuale Primo Ministro dell’Azad Kashmir, Sardar Attique Ahmed Khan, di cui ero ospite, e nipote di Sardar Mohammad Ibrahim Khan: il primo (e poi cinque volte tale) presidente del Kashmir.
Incontro con il primo ministro
Usman parla inglese correntemente, è spesso a Bruxelles, si occupa dei giovani musulmani di All Jammu & Kashmir Muslim Conference (il partito di maggioranza), ha una famiglia, vive nel mito del nonno e ha una buona relazione “dialettica” col padre. È un giovane dei nostri tempi che studia da primo ministro parlando a due o tre cellulari.
A Muzaffarabad incontro i rappresentanti di Jamat-Ud-Dawa (anche Jama’at-ud-Da’wah, abbreviata in JUD), che garantisce cura e assistenza nell’ospedale realizzato sotto un grande capannone, in cui sono collocati alcuni shelter che fungono da ambulatorio, farmacia, sala raggi.
Il cartello all’ingresso ricorda che Jamat-Ud-Dawa, in questo anno di lavoro, ha distribuito 24,5 tonnellate di merci, trasportate ai villaggi con 245 muli; ha curato oltre 350.000 persone, di cui alcune centinaia operate; ha eseguito 43.000 vaccinazioni e 5.800 prestazioni Xray con una macchina collegata in rete per esigenze di telemedicina; ha fatto circa 500 funerali; costruito oltre 4.000 case temporanee e 1.800 permanenti, 215 scuole e 350 moschee.
Jamat -Ut-Dawa è una organizzazione islamica, fondata nel 1985 a Lahore in Pakistan, prima conosciuta con il nome Markaz Daw’a wal Irshad e considerata strettamente connessa a Lashkar-e-Toiba (LeT), entrata nella lista nera del terrorismo internazionale perché associata ad Al Qaeda.
JUD si è pubblicamente dissociata da questo legame. Tuttora, nella comunità internazionale Jamat-Ut-Dawa è considerata una organizzazione del terrorismo islamista: in pratica un nome di copertura di LeT, a sua volta strettamente implicata nelle manovre qaediste che si presuppongono in Kashmir.
Poco prima di partire, a interrompere le scarse ore di riposo prima del volo internazionale, mi contattano due ex-combattenti kashmiri: ci incontriamo al bar dell’hotel. Sono arrivati dal kashmir indiano, hanno combattuto sulla LoC. Sono tra quelli che hanno fatto fronte a 750.000 soldati indiani che sono disposti sulla linea di controllo e che sono accusati di numerose violazioni dei diritti umani da Human Rights Watch, insieme ad altre NGO che con estrema difficoltà riescono ad avere informazioni delle violenze, omicidi e rapimenti che avvengono nel Kashmir indiano. Sono originari di Srinagar (India), hanno avuto parenti e amici scomparsi e uccisi. Mi dicono: “come si fa , quando si vive in quella situazione a non prendere in mano le armi, a combattere chi ti ha ucciso il fratello o violentato la moglie?… I campi dei terroristi? I campi della guerriglia ci sono, perché si impara a usare il fucile e si combatte, perché vuoi vendicare chi ti è stato ammazzato”. Ma ci si stanca, il tempo passa e si ripara a Islamabad dove si prova a ottenere con la politica quanto non si è potuto ottenere con le armi.
La questione del Kashmir gira attorno a questi nodi ed è complicata da una serie di fattori. Alla fine della guerra sovietica in Afghanistan e poi del crollo dell’Unione, sicuramente si è assistito a un flusso di mujahiddin verso il Kashmir che si sono confusi con i combattenti kashmiri. Infatti, le ragioni per cui si combatte sulla LoC sono frequentemente distinte: per alcuni si combatte per liberare il Kashmir, per altri si combatte per costruire un nuovo stato islamico. A fronte di una alleanza opportunistica sicuramente non esiste una alleanza ideologica, ma questo comporta – per noi occidentali – abbandonare la pericolosa semplicistica equazione per cui, ogni musulmano che combatte è un terrorista.
Qualche giorno dopo, a Islamabad, incontro in un piccolo ufficio un anziano signore che si chiana Amanullah Khan presidente del Jammu & Kashmir Liberation Front. Mi riceve alla base delle scale e mi conduce in una stanza scura, al caldo profumato di te dove cominciamo a conversare in buon inglese. Amanullah è considerato non gradito dagli stati occidentali, è finito in galera arrestato da Europol, poi rientrato in Pakistan per le pressioni governative. Ma non può lasciare il Paese, perché non gradito neppure in questa terra: egli sostiene, infatti, che il Pakistan non ha interesse nella autodeterminazione del Kashmir, che deve essere ottenuta per altre vie. Per l’India è uno dei peggiori terroristi.
Il Jammu Kashmir Liberation Front è stato fondato nel 1977 a Birmigham proprio da Amanullah Khan e da Maqboo Bhat (impiccato a Dehli nel 1984): l’organizzazione, prima presente in Europa, Usa e Medio Oriente, dal 1982 ha sedi in Pakistan e Azad Kashmir, si definisce nazionalista e non islamista. Nel 1995 la fazione del JKLF il cui comandate è Yasin Malik dichiara di rifiutare ogni forma di violenza. L’altra costola di JKLF, al cui comando risiede il fondatore Amanullah Khan, invece non opta per questa scelta sostenendo la lotta di liberazione contro l’India in Kahsmir